Una carrozza nera, simile nella pioggia a un carro funebre, si ferma davanti al castello di Berg. I servi, assiepati alle finestre, non staccano gli occhi dalla figura altezzosa che, rifiutando ogni aiuto con un gesto imperioso della mano, si stringe nelle falde di un loden scuro e scende: è il re, Ludwig II di Baviera, accompagnato dal piccolo, tondo dottor Gudden, che in nome della scienza – e forse al soldo dello zio di Ludwig, il principe Luitpold – ha deposto il sovrano, dichiarandolo pazzo. A nulla è valso l’amore del popolo bavarese, che in questo Ludwig ormai vecchio, bolso e sdentato continua a vedere il giovane di un tempo, bello nell’alta uniforme blu – der Märchenkönig, il re delle favole, costruttore di castelli leggendari, nelle cui sale sfarzose anche il signore di un piccolo stato schiacciato dalle mire espansionistiche della Prussia può fingersi un eroe d’altri tempi, un Tristano, un Lohengrin. Imprigionato in una stanza con le finestre chiuse da sbarre gelide e sorvegliato da servitori che attendono di scorgere in lui i segni rivelatori della pazzia, Ludwig parla: a se stesso, al Grande Amico – quel Richard Wagner che, forse, non ha mai ricambiato con sincerità la sua devozione –, all’antico amante Joseph Kainz, all’adorata cugina Elisabetta; e parlando cerca di squadrare la ragione del male che lo rode: non la follia di cui lo accusano i medici, né la vacuità sperperante invisa ai contabili dello Stato, ma il senso intollerabile di essere nato nell’epoca sbagliata, di essere destinato alla gloria e di non poter realizzare la propria grandezza per la tirannia dei tempi. È in questo lacerante lamento che la voce del re si confonde con quella del suo autore, che tanto acutamente soffrì l’ombra paterna e quella, più lunga, più cupa, della Storia. Esule dalla Germania hitleriana, Klaus Mann diede corpo in Ludwig non solo alla propria personale insoddisfazione, ma alle aspirazioni deluse di una generazione intera: da questa angolatura, Finestra con le sbarre – che pure l’autore considerava una pausa dalla sua usuale produzione engagée – rivela una natura tragicamente etica e perfino politica, che l’inquietudine fin de siècle colora di tonalità lugubri. Sostanziato in una lingua fastosa, memore del Liebestod wagneriano, questo sentire acuto, bruciante, è la cifra più autentica di Klaus Mann, e la qualità che lo inscrive saldamente fra i grandi della letteratura mitteleuropea del Novecento.
Klaus Mann, figlio primogenito di Thomas, nacque a Monaco nel 1906 e morì suicida a Cannes nel 1949. Fu scrittore di narrativa, teatro e reportage di viaggio. Nel 1933, fuggito dalla Germania nazista, fondò ad Amsterdam la rivista Die Sammlung, organo di stampa della letteratura tedesca d'esilio. Fra le sue opere, i romanzi Sinfonia patetica (1935), sulla vita di Cajkovskij, Mephisto (1936), da cui è stato tratto il celebre film con Klaus Maria Brandauer, e Il vulcano (1939). Pubblicato per la prima volta a New York nel 1942 in inglese, La svolta appare nel 1958 in Germania in edizione postuma e ampliata, seguita nel 1981 da questa versione che contiene una postfazione di Frido Mann, nipote di Klaus.
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