«Chiamo queste vite in una storia» dice Antonio Riccardi sulla soglia del Profitto domestico, e le sezioni della raccolta, le sottosezioni, le poesie – come le stanze, gli anditi, le scale dell’antico podere di Cattabiano, proprietà dei Riccardi da più di cinquecento anni – portano nel segreto di una famiglia, evocato per schegge, frammenti, attraverso le vicende dei suoi componenti, remoti e vicini, che della rappresentazione di quel segreto sono insieme attori e personaggi. Poema familiare che, nel suo dare struttura narrativa a universali tragici quali l’amore, il possesso, la morte – individuati da serie foniche e dunque simboliche come soldi-colpa, casa-corpo, cose-ricordi, rovine-reliquie –, rappresenta un unicum nella poesia e nella lingua italiana del secondo Novecento, Il profitto domestico condivide con la tragedia classica anche l’assolutezza geografica, confermata più che tradita dagli excursus immaginifici nell’Antartide di fine Ottocento e nell’Africa esplorata da Bottego: centro generativo del poema è infatti il podere avito, la foresta che lo circonda, i ruderi che punteggiano i colli, le valli, le rive dei fiumi dove la materia organica si decompone, mischiandosi all’inorganico dei rifiuti industriali, al metallo ormai rugginoso che infetta le ferite della Prima guerra mondiale: ogni materia, anche morendo, anche disfacendosi, vive. A uomini e case di pietra, ossa, scheletri di alberi, fantasmi di architetture, al loro divenire convoluto, corrisponde il tempo indefinito delle intangibili profondità astrali, le cui imperscrutabili rotazioni si rispecchiano, per virtù ben più che allegorica, nelle vicissitudini del mondo: «Il moto del cuore nell’animale / è come nel mondo / il movimento del cielo». Stagliate contro questa volta, còlta in specie nel buio della notte, le figure umane che popolano il poema – Antonio Riccardi il prelato roso da una colpa inconfessabile, l’epilettico Dositeo che «ha tenuto una chiave sotto la lingua / per guarigione», ancora un Antonio, soldato – perdono i contorni umani degli eroi o qualsivoglia psicologia romanzesca per guadagnare le proporzioni mitiche dei titani; allo stesso modo si trasfigurano alberi, pietre, animali: nel profondo silenzioso della foresta, all’allungarsi delle ombre della sera, i rumori del combattimento fra un cane e un cinghiale sono figmenti chimerici di una lotta assoluta, concrezioni particolari di una costante universale. Apparso originariamente nel «Nuovo Specchio» mondadoriano, e oggi riproposto dal Saggiatore in una versione riveduta dall’autore, Il profitto domestico dimostra una meticolosità linguistica rapinosa e una sorvegliatezza stilistica e metrica che, se da un lato distinguono la poesia di Antonio Riccardi da tanta parte degli atteggiamenti poetici novecenteschi, dall’altro la inscrivono in una tradizione secolare che passa per il crògiolo imprescindibile di Giacomo Leopardi. Eppure, a ben guardare, un poeta radicalmente novecentesco come Andrea Zanzotto – si pensi a «Rivolgersi agli ossari. Non occorre biglietto…», dal Galateo in Bosco, o a «Silicio, carbonio, castellieri», da Fosfeni – non è così distante: lontano, sì, ma vicinissimo. La grandezza del Profitto domestico starà allora nell’aver saputo realizzare una fusione nucleare così completa e perfetta fra parola e immaginario, fra realtà e simbolo, da trascendere il tempo, tanto che alla raccolta intera, e alla voce di Riccardi, si potrà apporre, a guisa di epigrafe, questo distico: «Ho visto tutto: cosa è stato e come sarà / e il tempo venire dalla radice».
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