«Esiste ancora un bisogno di parlare in termini umani dell’importanza della vita: un bisogno, che ci accompagna durante l’esistenza, di appartenersi, di potersi riferire a un inizio e a una fine.»
Qual è il rapporto tra romanzo e Apocalisse? In apparenza nessuno. Ma non è quello che pensa Frank Kermode, uno dei più importanti critici letterari del Novecento. La sua tesi, in questo libro ritenuto un classico, è che solo il romanzo abbia ereditato dall’immaginario apocalittico – in un’epoca secolarizzata come la modernità – quel «senso della fine» in cui trova forma la nostra umana pretesa che la vita abbia una struttura, un compimento, e non sia un lento sgocciolare verso il non essere attraverso le riarse sterpaglie del non senso. Apocalisse e romanzo postulano invece un disegno, una trama, una figura di destino, un «non ancora» saturo di possibilità che riscatti e dia senso anche a ciò che è già stato.
Il senso della fine è oggi attualissimo, ora che l’immagine dell’Apocalisse, nella forma della catastrofe ecologica da noi stessi provocata, è tornata a bussare alle nostre porte, agitata da profeti veri o falsi che siano.
Traduzione di Giorgio Montefoschi e Roberta Zuppet
Con un saggio di Daniele Giglioli
Frank Kermode (1919-2010) è stato critico letterario e professore di Letteratura inglese all’Università di Cambridge, a Harvard e alla Columbia. Tra le sue opere ricordiamo Il classico (Lerici, 1980), Forme d’attenzione (il Mulino, 1989), Il segreto nella Parola (il Mulino, 1993) e Il linguaggio di Shakespeare (Bompiani, 2000).
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