Un esordiente è sempre un eretico poiché introduce un elemento di novità in un campo che ha le sue regole e tradizioni. Per la letteratura occidentale, il XIX secolo ha segnato il momento in cui questa dinamica si è resa più evidente, perché è allora che essa ha assunto quella conformazione di «campo di produzione» autonomo che si è mantenuta stabile fino ai giorni nostri: l’idea che non esistano enti esterni che dettino di che cosa si debba scrivere e che, invece, il riconoscimento e la consacrazione di un artista letterario siano materie esclusivamente di dibattito interno, appannaggio di critici, intellettuali e editori. Da lì in avanti la letteratura è diventata un gioco chiuso in se stesso, comprensibile davvero solo a chi vi partecipa.
In Le regole dell’arte, Pierre Bourdieu sistematizza e mette in pratica due dei suoi più noti strumenti metodologici per indagare i rapporti tra arte e uomo: quello di «campo», inteso come principio di organizzazione sociale, e quello di «habitus», ovvero l’insieme delle disposizioni e pratiche rappresentative di un gruppo. Partendo dalla pittura del Quattrocento e procedendo poi con un’approfondita analisi della letteratura francese dell’Ottocento – in particolare di Gustave Flaubert, Charles Baudelaire ed Émile Zola –, mostra come non sia sufficiente conoscere le origini sociali e le disposizioni individuali di un autore per poterne comprendere le scelte artistiche, ma che ogni artista si muove sempre all’interno delle possibilità espressive del suo proprio campo.
Forte dello sguardo scientifico che rivolge alla storia della letteratura e della filosofia di Husserl, Heidegger e Marx, in quest’opera seminale Bourdieu mette in discussione in modo nuovo la concezione sacrale di una cultura che si vuole raccontare come «pura», e evidenzia le norme sociali implicite che regolano i modi in cui essa viene prodotta e ricevuta. Il suo è il tentativo di descrivere in modo definitivo il complesso rapporto tra arte e società e il ruolo dello studioso in esso: un obiettivo ambizioso che, fra le sue pagine, si fa rivoluzionario.
Introduzione di Anna Boschetti
Traduzione di Anna Boschetti e Emanuele Bottaro
«Cosa fa di un’opera d’arte un’opera d’arte e non un oggetto qualsiasi? Cosa fa di un artista un artista, e non un artigiano o un pittore della domenica?
Chi, in altre parole, ha creato “il creatore” in quanto produttore
riconosciuto di feticci?»
Pierre Bourdieu
Pierre Bourdieu (1930-2002) è una delle figure più incisive del pensiero contemporaneo. Filosofo di formazione, durante il servizio militare in Algeria, in piena guerra di indipendenza, si converte al mestiere di sociologo, meno prestigioso ma più adatto alla sua esigenza di conciliare teoria e ricerca empirica. Contro gli steccati tra specialità e discipline, persegue una concezione unitaria della scienza sociale e l’elaborazione di una teoria antropologica generale, che muove dalle acquisizioni delle principali tradizioni teoriche occidentali (Per una teoria della pratica, Il senso pratico, Meditazioni pascaliane, Il dominio maschile). L’esigenza di riflessività lo porta a dedicare le sue ricerche ai microcosmi che ha attraversato e alla sua relazione con essi: il Béarn natio, l’Algeria, la società francese còlta in diversi momenti (La distinzione, anni sessanta e settanta; La misère du monde e Le strutture sociali dell’economia, anni ottanta e novanta), il sistema di insegnamento (I Delfini, La riproduzione, Homo academicus, La noblesse d’état), i campi culturali (Le regole dell’arte, La fotografia, L’amore dell’arte, Il mestiere di scienziato).
Ha analizzato la sua traiettoria in Questa non è un’autobiografia. Dalla fine degli anni ottanta, allarmato per l’affermazione del pensiero unico
neoliberista, mette in atto una concezione originale dell’impegno intellettuale, una “Realpolitik della ragione”, intesa come azione “specifica” e “collettiva”.
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La cultura letteraria, spazio dei possibili e di una economia del disinteresse