In Affinità, Brian Dillon attraversa la storia dell’arte per cercare di spiegare come e perché le immagini abbiano il potere di sedurci. Una riflessione che si muove in quel territorio ambiguo tra ciò che ha importanza solo per noi e ciò che riguarda l’intera collettività, per indagare il legame magico che c’è tra quello che vediamo e quello che sentiamo.
Il concetto di «affinità» è estremamente vago e però per tutti di immediata comprensione. È qualcosa al contempo culturale ed emotivo, intellettuale e sentimentale: perché proprio quel quadro ci ha colpito nel mezzo della grande sala di quel museo? Non sappiamo dirlo con precisione, eppure non possiamo fare a meno di sentirci catturati da da quell’aura. In queste pagine Brian Dillon sceglie allora di esplorare le proprie affinità personali, interrogando le opere di artisti quali Dora Maar, Andy Warhol, Rinko Kawauchi o Francesca Woodman insieme alle illustrazioni scientifiche di creature marine e anatomie mediche, le fotografie della propria famiglia e i frammenti di celebri film, tentando così di definire con la scrittura un’interdipendenza sentimentale e intellettuale altrimenti ineffabile.
Affinità racconta in modo inedito questa fascinazione: la capacità di alcune immagini di farsi, con un solo sguardo, oggetto del nostro desiderio. Perché soltanto capendo cos’è che risuona dentro di noi, potremo dire davvero chi siamo.
Brian Dillon (Dublino, 1969) insegna Critical Writing al Royal College of Art di Londra. Scrive abitualmente per il Guardian, la London Review of Books e il Times Literary Supplement. Il Saggiatore ha pubblicato Vite di nove ipocondriaci eccellenti (2020), Inseguendo eclissi (2021) e Scrivere la realtà (2023).
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